Che cosa tiene insieme coloro che esercitano una professione di cura e le persone che fanno ricorso ai loro servizi?
Possiamo pensare al diritto di essere curati; oppure alla bontà d’animo e alla disposizione filantropica dei curanti. La legge e l’etica hanno certo il loro ruolo. Ma tra di loro c’è una terza realtà, a cui di solito si presta poca attenzione. Ha nome deontologia professionale. La sua rilevanza appare minima, se confrontata con gli altri due sistemi di regole, che predominano nel dibattito pubblico; eppure il suo ruolo è fondamentale nello scenario della cura. Può essere illuminante un riferimento che mutuiamo da un altro contesto. Nel poema Il portico della seconda virtù Charles Péguy, parlando delle tre virtù teologali, rileva che la “piccola” speranza viene messa in ombra dalle due grandi sorelle: la fede e la carità. Invece è lei, che procede tra di loro, a portarle per mano. Qualcosa di analogo possiamo affermare per la deontologia, rispetto alle due grandi: la Legge e l’Etica.
Sulla deontologia incombe la domanda di solito riservata al Carneade di manzoniana memoria: che cosa è costei? Invece di ricorrere a una definizione astratta, facciamocelo raccontare da un esempio a valenza didattica che ci viene fornito dalla recentissima serie televisiva francese Ippocrate: Specializzandi in corsia. Nel terzo episodio della seconda serie (2022) il pronto soccorso dell’ospedale è intasato: quaranta persone sono state colpite da un’intossicazione da monossido di carbonio e sono in grave crisi respiratoria. Devono passare per la camera iperbarica, che però può riceverne solo tre alla volta. La giovane specializzanda Alyson è molto coinvolta da un paziente, giovane anche lui, che dichiara affannosamente che non vuol morire. Riversa su di lui le sue cure, nell’angosciosa attesa di poter favorire il suo ingresso nella camera iperbarica. Spinta dalla compassione, vorrebbe dargli la priorità su altri malati. In questa condizione emotiva viene bruscamente confrontata dal medico responsabile del servizio, che le ricorda che lei è un medico, una professionista; che non può dare la precedenza a un paziente perché le è più vicino emotivamente, ma deve attenersi ai protocolli che stabiliscono l’ordine delle priorità; che non può riversare sul malato l’emotività esasperata che si prova quando il pericolo di vita incombe su una persona intima; che proprio con l’agitazione della sua compassione rischia di danneggiare il malato. In breve, l’esorta a imparare a comportarsi da medico. Non a caso nell’originale francese la serie è introdotta dallo slogan: “Medico non si nasce, lo si diventa”.
Ciò che la fiction televisiva afferma per il medico può essere esteso a tutte le professioni di cura. Anche infermiere – per dire – non si nasce, ma si diventa. Si deve imparare a praticare qualsiasi attività di cura, portandola dentro il contenitore della professionalità. Non ci riferiamo solo all’apprendimento del know how tecnico, ma all’interiorizzazione delle regole. La deontologia richiede al professionista di comportarsi in modo controintuitivo e di distaccarsi dal comportamento che abitualmente mettiamo in atto nei nostri rapporti sociali. Oltre a collocare tra parentesi la qualità morale della persona che ha bisogno di cura, e quindi a rivolgere la propria attenzione allo stesso modo alla persona eccellente come a quella spregevole, proibisce al professionista di fare discriminazioni (amici e nemici, persone prossime o socialmente distanti…) e di scegliere, in base alle proprie preferenze, quali bisogni di cura e quali lasciar cadere. Pur senza voler attribuire un’aureola di santità a chi ispira il proprio comportamento alla deontologia, emerge chiaramente il profilo di eccellenza in umanità richiesto al professionista. Gli domanda un cambio di passo rispetto ai comportamenti socialmente accettati; ovvero – rimanendo nell’area di questa immagine – di alzarsi sulla punta dei piedi.
Dedicare più attenzione alla deontologia contribuirebbe alla manutenzione della fiducia: che non deriva dalla legge, né è sovrapponibile all’etica. La fiducia nell’ambito professionale è un “artefatto”, che richiede impegno sia a chi la chiede, sia a chi la offre, rivestita di regole alle quali promette di attenersi. Per la persona bisognosa di cure queste regole sono una garanzia. Insieme al professionista si trasferisce in un territorio che si differenzia da quello in cui abitualmente ci muoviamo; insieme al professionista vive, per tutto il tempo della cura, una realtà “altra”, più alta dell’orizzonte che caratterizza l’umano.