Il Patto per la Salute 2019/21 ha previsto che accanto ai medici di medicina
generale, ai pediatri di libera scelta, agli specialisti ambulatoriali e ai
farmacisti sui territori arrivi «l’assistenza infermieristica di famiglia e
comunità, per garantire la completa presa in carico integrata delle persone». In
piena pandemia il Decreto Rilancio (legge 77/2020) ha dato il via libera alle
assunzioni: a decorrere dal 1° gennaio 2021, le aziende e gli enti del Servizio
Sanitario Nazionale possono procedere al reclutamento di 9.600 infermieri di
famiglia e comunità, «in numero non superiore ad 8 unità ogni 50.000 abitanti»,
ossia uno ogni 6.250 abitanti. Molti e immediati i distiguo: non si tratta di un
professionista prestazionale, non è da confondere con l’infermiere delle cure
domiciliari, non interviene a seguito di una prescrizione medica... L’infermiere
di famiglia e di comunità vuole invece essere una figura innovativa, nella
direzione del welfare generativo di comunità. Un’utopia, visto che gli infermieri
già mancano di loro? Se no, a quali condizioni? Lo abbiamo chiesto a Giuseppe
Costa, professore di Igiene presso l’Università di Torino, esperto di
disuguaglianze di salute e di valutazione di impatto delle politiche sanitarie e
non sanitarie sulla salute, coordinatore del Master in infermieristica di
famiglia e di comunità dell’Università di Torino.
Chi è e chi non è l’infermiere di famiglia e di comunità?
Un primo concetto importante è che si tratta di una funzione di cui si sente
terribilmente bisogno: poi quale sia la figura professionale o se serva una
figura professionale può essere oggetto di discussione. La funzione che oggi
tutti vedono come mancante e necessaria è quella di un regista che costruisca
relazioni di prossimità tra istituzioni e comunità per risolvere i problemi di
salute delle persone, soprattutto di quelle più vulnerabili. Un regista che si
occupa di un problema di salute lungo tutto l’arco della sua storia naturale: che
sappia riconoscere per tempo i fattori rischio, prevenirli e che sappia attivare
la presa in carico dei peggioramenti di salute. Cosa che implica il saperli
diagnosticare e nel contempo il saper attivare e mettere in rete tutte le
risorse disponibili nella comunità locale. Una parola-chiave è “proattivamente”:
bisogna cercare i bisogni, non aspettare che le persone si presentino in
ambulatorio.
Anche il case manager ha una funzione di regia.
Qui si tratta di un community manager più che di un case manager: per poter
attivare le risorse, serve avere prima una chiara conoscenza del capitale di
risorse di una comunità, dai servizi sociali alle case popolari, dalla
cooperativa alle associazioni… L'obiettivo è mettere insieme la mappa dei
problemi con la mappa della capacità di risposta. Esattamente quello che oggi non
succede nei territori, organizzati a compartimenti stagni per competenze, dove
tocca sempre a qualcun altro ma… non c’è mai nessuno che attivi questo qualcun
altro. Manca colui che aiuti il sistema delle risposte a diventare un
ecosistema: poi l’ecosistema funziona da solo. Il punto che fa la differenze è che
dinanzi a un problema, il primo che lo trova se ne faccia carico.
In questo senso questa funzione non deve essere necessariamente svolta da un
infermiere?
In questo senso parlavo di funzione prima che di profilo professionale, perché
dalle osservazioni qualitative fatte sulle esperienze che funzionano, si è visto
che a volte a svolgere questa funzione è stato il farmacista della vallata, altre
volte un infermiere, un fisioterapista, un’assistente sociale... Abbiamo fatto
una valutazione delle microaree di Trieste, un’esperienza prototipale che ha
realizzato al massimo le potenzialità di questo approccio, ma lì nessuno si è
sognato di dire che quelli sono infermieri di famiglia e di comunità: non si
chiamano in alcun modo specifico, sono professionisti diversi che si sono messi
a fare questa funzione. La preoccupazione, ribadisco, è che la funzione sia
attivata. Per questo anche noi non abbiamo creato una figura professionale
nuova ma un master di infermieristica di famiglia e di comunità, perché tanti
professionisti sono già nella filiera sanitaria e hanno già la base giusta di
competenze su cui fare job enrichment.
Allora perché centrare l’operazione sull’infermiere di famiglia?
L’operazione infermiere di famiglia e di comunità cerca di fare il salto verso il
rendere esigibile il diritto di avere tale funzione di regia: oggi non lo è,
perché non è iscritta in alcun modo nelle competenze di nessuno.
Alcuni studi sul Friuli Venezia Giulia, che dal 2004 ha un’esperienza importante
in questa direzione, dicono che c’è una riduzione dei codici bianchi in Pronto
Soccorso di circa il 20% e una riduzione del tasso di ospedalizzazione del 10%
rispetto a dove è presente solo l’assistenza domiciliare integrata. Oggi siamo in
un momento cruciale per passare dalle esperienze esemplari alla messa a sistema:
quali sono i driver di successo?
La risposta non è facile. I meccanismi che si sono visti a Trieste sono legati
anche a una serie di “magie” che non so quanto siano replicabili. Un ingrediente è
senza dubbio l’integrazione regolata, ordinaria, non solo scritta in una
convenzione tra i vari attori locali: le case popolari, i servizi sociali e
l’azienda sanitaria. Le case popolari hanno permesso di avere in ognuna delle
15 micro-aree di Trieste un luogo riconoscibile, di portierato sociale, un luogo
dove avviene lo sportello, ma che non è un ufficio: è anche cucina, luogo di
raccolta del cibo con scadenza vicina e che può essere redistribuito, dove si
confezionano e si ritirano i pacchi per chi ha bisogno… Tutti si riconoscono in
questo luogo. La mappatura dei problemi e delle risorse della comunità ha fatto
funzionare le connessioni tra questi soggetti diversi: ad esempio la signora
anziana che doveva fare la chemio e aveva bisogno di un passaggio e di un
accompagnatore, è stata messa insieme al detenuto in permesso, con un bambino da
sostenere economicamente. Grazie a chi ha messo a disposizione un’auto, si è data
risposta a due problemi diversi. Automaticamente le risorse della comunità
diventavano la soluzione di una serie di problemi locali. Questa è operazione di
regia che serve. Nella nostra ricerca abbiamo rilevato che se uno misura queste
energie che si attivano nella comunità con le scale ordinarie di misurazione del
capitale sociale, non le vede perché le situazioni di quelle microaree sono tali
per cui i capitali sociali sono peggiori: ma se si usano scale di capitale
sociale più sottili, che vedono la capacità di soluzione dei problemi e la fiducia
nella possibilità di soluzione dei problemi, i risultati erano straordinari.
Siamo nella situazione per cui ci sono risorse ma magari non la capacità di
condizionarle affinché vadano davvero in una direzione innovativa, senza prendere
scorciatoie che rischiano di banalizzare le innovazioni vere e proprie. Perché
dobbiamo ricordarci che le vere innovazioni sono complesse, riguardano la
governance e il buon funzionamento, sono cose a cui è anche difficile dare un
nome
Questa è o no quindi una leva importante per quell’innovazione che tutti chiedono,
per una sanità di prossimità?
Con legge 77 e i 25 milioni di euro per la sperimentazione si è aperta una
finestra di opportunità per linkare le risorse della comunità con le risorse
istituzionali. Purtroppo si è deciso di distribuire quelle risorse a quota
capitaria e non vincolate ad alcune caratteristiche con il rischio che quei
soldi si aggiungano banalmente all'assistenza territoriale senza esigere
innovazione. Siamo nella situazione per cui ci sono risorse ma magari non la
capacità di condizionarle affinché vadano davvero in una direzione innovativa,
senza prendere scorciatoie che rischiano di banalizzare le innovazioni vere e
proprie. Perché dobbiamo ricordarci che le vere innovazioni sono complesse,
riguardano la governance e il buon funzionamento, sono cose a cui è anche
difficile dare un nome. Io intuisco che la strada è questa e siamo in grado di
accompagnare chi vuole essere accompagnato, ma non ci sono scorciatoie. Un
elemento positivo sono le iniziative di advocacy che si stanno aprendo, ad
esempio “Prima la comunità” con don Virginio Colmegna che ha messo insieme decine
di esperienze che fanno innovazione in questo senso. Se le lasciamo solo in mano
alla sanità e alle professioni cliniche e di sanità pubblica c’è infatti un rischio
riduzionistico, che siano solo una operazione di
razionalizzazione/standardizzazione dei percorsi sanitari e assistenziali - che è
già un buon progresso - ma non è quei cambiamento organizzativo che è necessario
nei servizi per emulare quella magia che è successa a Trieste. È un problema che
hanno un po’ tutti i Paesi, tanto che le fondazioni bancarie europee hanno creato
un network che si chiama integrated community care non solo integrated care,
dove la community è centrale. I problemi di innovazione sono simili ovunque,
quello che fa la differenza tra un paese e l’altro è il grado di maturità del
funzionamento della governance delle istituzioni.