22/05/2015 - Professioni sanitarie "vincenti" scondo il Rapporto Istat 2015 che tuttavia segnala lo stallo dell'occupazione e gli effetti della carenza di personale e servizi in sanità che penalizzano soprattutto il Sud. Mangiacavalli: "Soluzioni parziali per l'occupazione sono possibili, ma senza organici il servizio non ce la fa". Il Rapporto 2015
Le professioni sanitarie e le specialità mediche sono tra quelle che nel 2012-2014 l'Istat, nel suo Rapporto 2015, definisce "vincenti". In tutto si tratta di 70 professioni che comprendono tra le altre quasi tutto il settore dei servizi. Per queste l'occupazione nonostante tutto tiene e anzi registra lievi aumenti. A fianco ci sono quelle "stazionarie (356) in cui l'occupazione sembra stabile o con lievi diminuzioni. Sul versante opposto le professioni "in crisi" (82), dove l'occupazione ancora non dà segni di ripresa e il suo livello resta, negli ultimi anni, in discesa.
Ma In Italia il tasso di occupazione cresce comunque al di sotto della media europea (+0,2 punti), attestandosi al 55,7%, valore molto lontano dalla media del continente (64,9%) e inferiore di quasi tre punti rispetto al 2008. E l'Istat commenta che il raggiungimento di un tasso di occupazione pari a quello medio degli altri paesi dell'Ue significherebbe per il nostro Paese un incremento di circa tre milioni e mezzo di occupati.
Gli allarmi che derivano dall'analisi del Rapporto Istat non finiscono qui. La crescita dell'occupazione riguarda soltanto il Centro-Nord, mentre il Mezzogiorno accusa una perdita di mezzo milione di occupati dall'inizio della crisi (-9,0 per cento). Il calo nell'ultimo anno fa scendere il tasso di occupazione del Mezzogiorno al 41,8 per cento (-0,2 punti), mentre l'indicatore torna a crescere nelle altre ripartizioni (+0,7 e +0,2 punti, rispettivamente al Centro e al Nord).
Per di più a partire dal secondo trimestre del 2014 il lavoro atipico ha ripreso a crescere, con un incremento complessivo di 80mila unità nell'ultimo anno (+3,1 per cento), che riporta l'incidenza sul totale degli occupati a quella del 2008 (11,9 per cento). Un risultato che è sintesi del recupero dei dipendenti a termine (tornati sostanzialmente sui livelli del 2008) e del forte calo dei collaboratori, ridotti di 77mila unità (-17,0 per cento).
L'unica forma di lavoro che continua a crescere quasi ininterrottamente dall'inizio della crisi è il part time. Il lavoro permanente a tempo parziale, aumenta di 643 mila unità dal 2008 (25,1 per cento) e di 80 mila (2,6 per cento) nell'ultimo anno.
C'è un ulteriore aspetto negativo che riguarda proprio la professione infermieristica e in particolare la forza lavoro che entra in Italia dall'estero. Anche se con un titolo di studio elevato, segnala l'Istat, i lavoratori stranieri seguono da noi un percorso discendente, che può offrire poi l'opportunità di accedere a professioni superiori a quelle svolte nel primo lavoro in Italia. Il 31,2% dei laureati ha un percorso prima discendente e poi ascendente, contro il 20,8% di chi ha al massimo la licenza media. Ed è emblematico secondo l'Istat il caso di molti infermieri nel paese di origine, che iniziano a lavorare in Italia come badanti e successivamente tornano alla professione d'infermiere.
"Una situazione generale che abbiamo già più volte rilevato e denunciato – commenta Barbara Mangiacavalli, presidente della Federazione nazionale OPI – sia quando abbiamo sottolineato che l'occupazione potrebbe trovare una soluzione in più se le strutture sanitarie private evitassero il meccanismo denunciato dall'Istat e si rivolgessero, per incrementare gli organici, ai professionisti formati e verificati dal nostro sistema universitario. Sia quando abbiamo messo in evidenza che in realtà la parte d'Italia a livello del resto d'Europa è il Centro (in parte) -Nord, sottolineando proprio la sottoccupazione nel Sud legata alla necessità di contenere la spesa e al blocco totale del turn over nelle Regioni in piano di rientro. Con la conseguenza anche di una mobilità sanitaria in eccesso dei pazienti di queste Regioni, verso le strutture considerate d'eccellenza del Nord. Per questo abbiamo chiesto un intervento deciso del Governo che aiuti le Regioni in crisi a evitare i 'viaggi della speranza' e le metta in condizione di programmare e organizzare al meglio le proprie strutture, perché possano se non attrarre pazienti, almeno evitarne la fuga in cerca di cure migliori".
Nonostante tutto però, che l'assistenza sanitaria sia un fiore all'occhiello del nostro Paese, il Rapporto Istat lo conferma nel momento in cui evidenzia che l'80% degli italiani è soddisfatto delle proprie condizioni di salute e la maggioranza della popolazione adulta (60,8%) valuta positivamente il Servizio sanitario pubblico. Anche se con giudizi variabili degli italiani, ancora una volta legati alle singole Regioni. Emerge così il dato della rinuncia all'assistenza: un italiano su dieci (il 9,5%) non ha potuto secondo l'Istat utilizzare le prestazioni del servizio pubblico per motivi economici o per carenze delle strutture di offerta (tempi di attesa troppo lunghi, difficoltà a raggiungere la struttura oppure orari scomodi).
A conferma del divario Nord-Sud, poi, l'Istat rileva ad esempio che nelle Regioni meridionali la quota pro capite di finanziamento non raggiunge i 1.900 euro, con il minimo di 1.755 in Campania, mentre in altre aree del Paese supera i duemila euro. I valori massimi, superiori ai 2.300 euro, si rilevano in Valle d'Aosta, Bolzano e Trento, dove sono anche più elevate le dotazioni medie di personale sanitario a fronte di prevalenze nettamente più basse di popolazione in cattive condizioni di salute.
La prova del buon rapporto con il Ssn, ma dei problemi legati alla geografia del Paese, sono i giudizi dei cittadini, che vanno dai "molto soddisfatti" al Nord (30%) ai "molto insoddisfatti" soprattutto nel Sud, dove quasi una persona su tre esprime un giudizio negativo. Nel Lazio poi – tra le Regioni in piano di rientro con il maggior deficit – si registra un incremento degli insoddisfatti del +8 per cento.
Il fattore economico (ma non solo) influenza anche la salute. I problemi (che riguardano più di un quinto della popolazione) sono soprattutto in Umbria, Sardegna, Emilia-Romagna, Marche, Friuli-Venezia Giulia, Puglia e Abruzzo. Da questo punto di vista, sempre secondo l'Istat, stanno peggio soprattutto le Regioni in piano di rientro, con bassi livelli di dotazione di personale sanitario e un finanziamento inferiore alle necessità (1.810 euro per abitante in Puglia, 1.890 nelle Marche e 1.915 in Sardegna).
Il Sud resta in generale un'area di svantaggio sulla salute, e non solo, tra carenza di servizi, disagio economico, diseguaglianze sociali e scarsa integrazione degli stranieri residenti.
"Una situazione – commenta ancora Mangiacavalli - per molti versi nota da anni, sottolineata a più riprese da chi opera nel Servizio sanitario nazionale e che tuttavia presenta un denominatore comune che il legislatore dovrebbe considerare nelle sue scelte di politica economica e di tagli: perfino nelle Regioni nella parte più bassa della graduatoria del gradimento (Molise, Campania, Calabria), la maggioranza di chi ha utilizzato visite, accertamenti specialistici e servizi sanitari pubblici assegna un punteggio che varia da 8 a 10. Questo è dovuto, viste le carenze evidenti delle strutture nelle Regioni in deficit, soprattutto alla qualità del personale. Perciò va fermata l'emorragia di operatori legata al blocco di contratti e turn over. Anche per evitare la rinuncia dei cittadini a prestazioni sanitarie che rappresenta un importante indicatore di qualità dell'offerta, perché rivela una domanda di assistenza alla quale il sistema non riesce a dare adeguata risposta"