In questo periodo per affrontare i molteplici problemi di etica che la pandemia pone è stato istituito all’ISS il Gruppo di Lavoro ISS “Bioetica COVID-19”. La diffusione di SARS-CoV-2 ha reso necessario fronteggiare sia interrogativi di etica clinica, sia dilemmi di etica della sanità pubblica. Nel gruppo di lavoro si sono confrontati esperti in molteplici discipline: medicina clinica, sanità pubblica, epidemiologia, pediatria, cure palliative, diritto, filosofia, ricerca biomedica, scienze infermieristiche e, ovviamente, bioetica.
In questo senso è stato appena pubblicato il volume “Tutela della salute individuale e collettiva: temi etico-giuridici e opportunità per la sanità pubblica dopo COVID-19” che riporta i contributi e i punti di vista dei vari componenti del Gruppo che riflettono la molteplicità delle discipline e delle esperienze in un’emergenza epocale.
La voce degli infermieri e in particolare l’etica e la deontologia ai tempi di COVID-19 di questo professionista, sono affidati al capitolo curato da Aurelio Filippini, Azienda Socio Sanitaria Territoriale dei Sette Laghi, Varese, Centro di Ricerca in Etica Clinica, Università dell’Insubria, Varese e presidente dell’OPI Varese.
Filippini sottolinea che “essenziale è stata la relazione di cura: durante la pandemia c’è stata infatti una scarsa possibilità di conoscere chi è assistito per instaurare un rapporto di fiducia che però diventa patrimonio dell’essere professionista e entrare nelle case di nuovi assistiti, che versavano in condizioni già molto gravi, ha richiesto una eccezionale sensibilità e attenzione per guadagnare la fiducia nonostante spesso non ci fossero risposte alle domande. Essere riconosciuti è passato dagli sguardi e dalle mani, dall’esserci e dal gesto di cura. Nelle mani e nel gesto è racchiusa l’azione come attuazione della volontà, come simbolo di vicinanza e mezzo per il raggiungimento di un fine ultimo: il benessere della persona, della famiglia e della collettività. Il tempo che gli infermieri hanno passato con chi hanno assistito si è basato più che sulla quantità sull’intenzionalità al fine di far in modo che assistiti e familiari non sentissero di essere stati lasciati in abbandono”.
Secondo Filippini “entrare nelle case delle persone durante l’epidemia ha modificato anche le consuete modalità nell’informazione: per l’infermiere di famiglia e comunità l’equipe sul territorio è composta anche e soprattutto dalla famiglia con la quale il confronto e la presa di decisioni è sempre condivisa. In situazioni in cui il peggioramento delle condizioni di salute si è rivelato repentino è stato più complesso garantire la condivisione di tutte le informazioni con l’equipe degli operatori sanitari poiché l’infermiere non era fisicamente presente al domicilio. Spesso le colleghe e i colleghi si sono ritrovati a gestire il fine vita con il supporto dei famigliari e molte volte anche solo telefonicamente. Sono state difficoltà in più, da affrontare con motivazione, anche quando le comunicazioni sono state drammatiche. L’infermiere si è assicurato che l’interessato e la persona di riferimento avessero ricevuto tutte le informazioni sullo stato di salute in maniera precisa, completa e tempestiva”.
“A casa da soli – spiega – è stato particolarmente difficile affrontare il dolore e la palliazione. L’attenzione durante la pandemia di COVID-19 si fa necessariamente alta: l’infermiere è stato l’interlocutore essenziale delle persone assistite per garantire quel sollievo che sembra ancora così difficile da ottenere attraverso l’educazione all’utilizzo di presidi, quali elastomero e infusori in genere e somministrazione della appropriata terapia prescritta, mantenendo un canale privilegiato e costante al fine di non lasciare la persona e la famiglia in abbandono”.
Ed è per questo che è stato “fondamentale organizzarsi per assistere le numerose persone, comprese soprattutto quelle non COVID, che, non avendo la possibilità di accesso alle strutture ospedaliere, sono state necessariamente legate all’assistenza a domicilio, con alta necessità di informazione per riorganizzare i percorsi e formare la persona e i famigliari rispetto al rischio infettivo. L’adozione di protocolli operativi da adattare alla casa per la tutela dei famigliari è stata recepita come un dovere professionale”.
“L’infermiere – conclude Filippini – ha fatto proprie le sfide dei mutamenti demografici ed epidemiologici del nostro paese per archiviare classificazioni obsolete. La prevenzione, la cura, la riabilitazione, l’ospedale e il territorio sono dunque categorie di attività e non più luoghi che definiscono delle azioni professionali infermieristiche”.