Si chiama "I3C" e frena l'uscita del virus dalle cellule. È il risultato di uno studio internazionale che ha convolto i ricercatori dell'Ospedale Pediatrico Bambino Gesù per il sequenziamento del genoma e l'individuazione delle varianti genetiche che favoriscono l'infezione COVID-19.
La rivista Cell Death & Disease (Nature) ha pubblicato uno studio internazionale sul COVID-19 coordinato dai Professori Giuseppe Novelli (Università di Tor Vergata – Università del Nevada, USA) e Pier Paolo Pandolfi (Università di Torino – Università del Nevada, USA), in collaborazione con l'Ospedale Bambino Gesù (Roma), Istituto Spallanzani (Roma), l'Università San Raffaele (Roma) e diverse Istituzioni USA (Harvard, Yale, Rockfeller, NIH, Mount Sinai, Boston University), canadesi (University of Toronto) e francesi (INSERM Parigi, Hôpital Avicenne).
Il gruppo internazionale ha identificato una classe di enzimi (E3-ubiquitin ligasi) necessari al virus SARS-CoV-2 per uscire dalle cellule infettate e diffondersi a tutti i tessuti dell'organismo. Queste stesse proteine svolgono un'azione simile anche per altri virus come l'Ebola. I ricercatori hanno dimostrato che i livelli di questi enzimi sono elevati nei polmoni dei pazienti e in altri tessuti infettati con il virus.
Lo studio ha anche identificato alterazioni genetiche rare nei geni codificanti per queste proteine in un sottogruppo di pazienti (circa 1300) con forma grave della malattia selezionati dalle coorti dei Consorzi Internazionali: COVID Human Genetic Effort, French COVID Cohort Study Group, CoV-Contact Cohort, e Healthy Nevada Project. Queste alterazioni aumentano l'attività degli enzimi e favoriscono l'uscita del virus infettante.
Le mutazioni genetiche che favoriscono lo sviluppo dell'infezione COVID-19 sono state individuate all'Ospedale Pediatrico Bambino Gesù: i ricercatori dei Laboratori di Genetica Medica, guidati dal prof. Antonio Novelli, con l'ausilio di piattaforme NGS - Next Generation Sequencing hanno sequenziato il genoma dei 130 pazienti italiani (adulti e pediatrici) arruolati nello studio, rintracciando le varianti dei geni (HECT, WWP1 e NEDD4) implicate nel processo di moltiplicazione del virus. Articolo completo su www.ospedalebambinogesu.it
Prevenire e arrestare la fragilità e il declino cognitivo, garantendo una buona qualità della vita nell’invecchiamento. È questa una delle maggiori sfide per la sanità del 21° secolo: la maggiore aspettativa di vita degli ultimi decenni si traduce infatti in un significativo aumento del numero di persone affette da demenza che, com’è noto, si manifesta soprattutto negli anziani.
In Europa sono quasi 9 milioni i pazienti con demenza di cui 1.200.00 in Italia, paese che presenta un’elevata prevalenza di soggetti anziani. Nel 2015 i pazienti con malattia di Alzheimer e demenze correlate erano circa 47 milioni nel mondo, un numero destinato a triplicarsi nel 2050 in mancanza di strategie efficaci per prevenire il deficit cognitivo e rallentarne la progressione.
Le malattie neurodegenerative sono caratterizzate da una lunga fase preclinica - che può durare anche 20 anni - in cui i meccanismi responsabili delle lesioni cerebrali sono già attivi ma causano sintomi modesti, che non interferiscono in modo significativo sulla vita quotidiana. Con il passare degli anni, tuttavia, questi deficit si aggravano fino a evolvere in una demenza conclamata.
Un aiuto importante, arriva dalle nuove tecnologie digitali, efficaci nel monitorare primi sintomi di deficit cognitivo e attuare quanto prima le strategie di prevenzione. Lo dimostrano i risultati - pubblicati sulla rivista Age and Ageing della British Geriatrics Society - del progetto di ricerca My-AHA - My Active and Healthy Aging, coordinato da Alessandro Vercelli, Dipartimento di Neuroscienze Rita Levi Montalcini e direttore del NICO Neuroscience Institute Cavalieri Ottolenghi dell’Università di Torino, e finanziato dalla Comunità europea nell’ambito del Programma Horizon 2020.
Il progetto My-AHA, forte della sinergia di 15 centri di ricerca e aziende ICT europei ed extra-UE (Australia, Giappone e Corea del Sud), ha portato in 4 anni allo sviluppo e validazione di una piattaforma tecnologica che - integrando una serie app - è in grado di monitorare lo stato di salute, rilevando precocemente il rischio di fragilità, e suggerire – in parallelo – attività utili per prevenire il deficit cognitivo e mantenere una buona qualità di vita nei soggetti anziani.
Valore aggiunto di My-AHA l’approccio integrato che ha unito le competenze multidisciplinari di medici, ingegneri ed esperti di informatica, questi ultimi - afferenti all’Istituto di Biomeccanica di Valencia, all’Università di Siegen (Germania), all’Istituto Fraunhofer (Portogallo) e ad alcune piccole imprese europee - coordinati dall’ing. Marco Bazzani della Fondazione LINKS di Torino. Le attività psicologiche e fisiche sono state invece monitorate e stimolate mediante protocolli disegnati dalle Università di Loughborough e di Siegen.
Lo studio. Dopo uno screening iniziale di alcune migliaia di persone in Italia (Università di Torino), Giappone (Università di Tohoku), Spagna (Istituto Gesmed di Valencia), Austria (Johanniter Inst. di Vienna) e Australia (Università della Sunshine Coast), sono stati selezionati 200 soggetti di età maggiore di 65 anni in condizione di pre-fragilità fisica, cognitiva o psicosociale. Articolo Completo
Per poter parlare di questo argomento bisogna avere uno sguardo rivolto al futuro, libero da congetture e tabù, da cui la cultura Italiana è attanagliata. Questo ovviamente trova riscontro anche tra i professionisti stessi che la esercitano.
Innanzitutto mi presento, mi chiamo Alessio Carpegna e sono laureato in infermieristica. Ho avuto la fortuna di esercitare la nostra splendida professione nel mondo anglosassone per circa sei anni, infatti cercherò di argomentare rifacendomi a esso, prendendone gli aspetti che ho ritenuto più rilevanti e tralasciandone altri che a mio onesto parere ci appartengono meno.
Molti professionisti parlano male della sanità anglosassone e della sua organizzazione. In primis i medici, in quanto perderebbero il loro strapotere che attualmente detengono nel nostro paese, qualora dovesse essere messo in discussione in toto o in parte.
Come immaginare la carriera infermieristica se non attingendo alla sue origini, al paese che ha dato vita all’infermieristica intesa come scienza rivolta allo studio dell’assistenza e del soddisfacimento dei bisogni dell’individuo, non solo in ambito ospedaliero ma anche familiare e nella società, ponendolo al cento d’essa, poiché sono elementi imprescindibili per il raggiungimento della felicità, realizzazione e mantenimento della salute psico-mentale dell’uomo, al fine che sia realmente indipendente attraverso una corretta educazione sanitaria?
L’idea per quanto riguarda la carriera professionale sarebbe quella di avere un direttore infermieristico (ward manager) per ogni unità operativa al pari dell’attuale direttore medico, al fine di suddividere, bilanciare il potere e le responsabilità.
Esso, sarà coadiuvato da vari coordinatori di turno-., i quali dovrebbero a loro volta essere specializzati nell’ ambito in cui prestano servizio; ogni turno deve avere tre coordinatori i quali saranno i super visori del infermiere non specializzato in un determinato ambito (in Inghilterra viene definito general adult nurse).
Al disopra delle figure menzionate si pone la direzione sanitaria infermieristica che funge da organo di controllo di tutte le attività e organizzazioni infermieristiche nelle varie unità operative; all’interno della direzione trova collocamento l’attuale laureato in scienze infermieristica e ostetricia (Laurea Magistrale).
A questo punto ci si chiede come si possa raggiungere questo traguardo anche in Italia?
Come accade in Inghilterra e in altri paesi, al fine di garantire una gestione neutrale e una massima efficienza, andrebbe riorganizzato l’organigramma delle Asl di tutto il territorio nazionale. Ciò implicherebbe che la politica non può e non deve avere interferenza e potere poiché le cariche ai vertici, come i direttori, non verrebbero scelti per clientelismo politico o per avanzamenti di carriera poiché non sarebbero medici o professionisti sanitari a doverle ricoprire.
Messo in atto quanto sopra ,si potrà successivamente passare a riorganizzare la carriera e la formazione professionale come già suggerito, cambiando il percorso degli studi universitari degli infermieri inserendo le varie specializzazioni.
Si potrebbe portare il percorso di studi di base a quattro anni o lasciarlo a tre con l’inserimento delle varie specialistiche che a seconda della complessità potranno essere di uno, di due o tre anni.
Tuttavia la cosa più importante sarebbe quello di migliorare la formazione del professionista infermiere, creando una facoltà distaccata da quella di medicina, togliendo i medici dalla formazione infermieristica, poiché uno studente dovrebbe essere formato nei vari ambiti da altri professionisti infermieri e non dal suo antagonista che, spesso ha frenato la crescita per continuare a detenere una sanità medicocentrica.
D’altro canto non vedo infermieri che insegnano nei corsi di medicina. L’intero sistema meriterebbe una rivoluzione radicale sia dal punto di vista organizzativo che della formazione, poiché allo stato attuale il nostro sistema sanitario, organizzativo e formativo risulta per molti aspetti retrogrado, arcaico, immobile, ostinato a non voler cambiare per ragioni che non osiamo immaginare. Per l'articolo completo