A cura dell'IRCCS Ospedale San Raffaele
I nuovi test sierologici di tipo quantitativo anti-RBD possono dare informazioni più precise sul livello di immunizzazione al coronavirus. L’esperto ci spiega come funzionano, quando si fanno e cosa misurano.
Con l’avanzamento delle conoscenze sulla pandemia da Covid-19 e sul virus SARS-Cov-2, diventano sempre più specifici ed efficaci anche i test sierologici che abbiamo a disposizione per misurare la quantità e la tipologia di anticorpi al coronavirus prodotti dal nostro sistema immunitario in risposta all’infezione con il nuovo coronavirus o alla vaccinazione contro lo stesso.
Oggi sono disponibili diversi test sierologici che i cittadini possono richiedere a pagamento, ma è importante fare chiarezza sulla specificità di ognuno per capire meglio che informazioni ci rivelano e quando vanno effettuati.
Ne parliamo con il dottor Massimo Locatelli, responsabile del Servizio di Medicina di Laboratorio dell’IRCCS Ospedale San Raffaele di Milano.
Test sierologico quantitativo per gli anticorpi neutralizzanti anti-RBD
Il test sierologico quantitativo per gli anticorpi SARS - Cov-2 anti-RBD è nuovo test sierologico in grado di cercare in maniera specifica esclusivamente gli anticorpi neutralizzanti, presenti:
in risposta all’infezione;
in risposta alla vaccinazione.
Cosa sono gli anticorpi neutralizzanti del SARS-CoV-2
Ma cosa sono gli anticorpi neutralizzanti? Sono una particolare categoria di anticorpi molto efficaci nel combattere l’infezione da coronavirus, poiché riconoscono nello specifico una regione relativamente piccola della proteina Spike del virus, definita RBD, Receptor Binding Domain.
L’RBD è quella regione che permette al virus di agganciarsi alle cellule umane e infettarle. Dopo aver individuato la porzione RBD, questi anticorpi ci si legano e impediscono così al virus di usarla per penetrare nelle nostre cellule.
“Questo tipo di anticorpi sono quelli più efficaci nel proteggerci dall’infezione, anche se non sappiamo ancora con certezza per quanto tempo rimangano in circolo”, spiega il dottor Locatelli.
Che tipo di informazioni fornisce
“Poiché sono esattamente gli anticorpi che vengono stimolati dai vaccini per il Covid-19 - continua il dottor Locatelli - i test sierologici degli anticorpi totali anti-RBD possono essere utilizzati per:
valutare e monitorare nel tempo l’efficacia dei vaccini;
sapere se una passata infezione da Covid-19 ci ha lasciato degli anticorpi neutralizzanti in circolo”.
Al momento purtroppo, data la rapidità con cui si sono evoluti, lo sviluppo di questa tipologia di test non è ancora standardizzata.
E’ inoltre doveroso chiarire che, allo stato attuale delle conoscenze, a prescindere da qualunque sia il risultato, questo test non fornisce indicazioni sull’opportunità o meno di sottoporsi a vaccinazione, né sul grado di protezione contro una eventuale re-infezione da Covid-19.
Quando fare il test sierologico anti - RBD
È bene specificare che trattandosi di un test di anticorpi totali, il test misura insieme gli anticorpi anti-RBD della Spike indipendentemente dalla classe a cui appartengono, ovvero indipendentemente dal fatto che siano IgM, IgG e IgA.
Misurare nello specifico una classe piuttosto che un’altra ci dà informazioni temporali, visto che gli anticorpi IgM vengono prodotti subito dopo l’infezione, mentre gli IgG e IgA richiedono alcune settimane.
Ecco perché questo tipo di test non fornisce indicazioni temporali ed è meglio effettuarlo a 3 settimane dalla vaccinazione o dalla presunta infezione.
Test sierologici quantitativi IgM e IgG per la proteina Spike
Gli esami sierologici quantitativi classici invece, a differenza di quelli anti-RBD, individuano in maniera aspecifica gli anticorpi che riconoscono la proteina Spike (che è composta da due parti, S1 e S2), indipendentemente quindi dal fatto che la regione che riconoscono sia quella RBD o meno.
“Questa tipologia di test, che non individua nello specifico gli anticorpi neutralizzanti, fornisce meno informazioni sulla protezione anticorpale contro una futura infezione - spiega Locatelli -. Ecco perché se si vuole controllare l’efficacia della vaccinazione il suggerimento è di effettuare il test di nuova generazione per gli anticorpi anti-RBD.”
Che tipo di informazione danno
Il vantaggio di questi test quantitativi più vecchi per gli anticorpi generici anti-Spike è però quello di poter misurare separatamente le due classi di anticorpi IgG o IgM. In questo modo, se è vero che abbiamo meno informazioni sull’efficacia protettiva degli anticorpi, dall’altro lato è possibile capire di più su quando è avvenuta l’infezione:
- se il test per gli anticorpi IgM contro la Spike è positivo e quello gli IgG è negativo, allora significa che ci siamo infettati entro 10 giorni;
- se IgM e IgG sono entrambi positivi l’infezione è avvenuta da più di 10 giorni ma da meno di un mese;
- se invece il test agli IgM è negativo e quello agli IgG è positivo, allora l’infezione è avvenuta almeno 3 settimane/un mese prima.
I test sierologici qualitativi per gli anticorpi anti-nucleocapside
Esiste una quarta ed ultima opzione, molto diversa dalle precedenti: parliamo del test sierologico qualitativo che misura gli anticorpi anti-nucleocapside del virus. Si tratta di un test rapido e meno preciso dei precedenti, che può essere fatto come prima modalità di screening e che, in caso di esito positivo, va confermato tramite un test quantitativo e un tampone molecolare.
Oltre alla rapidità di utilizzo, questi test qualitativi sono utili per un’altra ragione: gli anticorpi in grado di riconoscere il nucleocapside vengono infatti prodotti solo in seguito all’infezione naturale. I vaccini attualmente approvati, infatti, espongono al sistema immunitario solo la regione RBD della proteina Spike, e non altre strutture proteiche del virus, come, appunto, il nucleoclapside.
Ecco perché tramite questo test qualitativo, anche chi è già vaccinato può scoprire se è entrato in contatto o meno con il virus. Se infatti si è vaccinati ma non si è mai fatto il Covid-19, il test risulta negativo....
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Lungimirante. Così può essere definito Alessandro Zocca, sindaco di San Martino Siccomario, che per primo in Italia ha compreso l'importanza di dotare il suo comune di una figura socialmente e sanitariamente fondamentale come l’infermiere scolastico. Su suggerimento di Ains ha colto immediatamente l’utilità di introdurre un servizio che coprisse sia le elementari che le medie, complice anche la vicinanza delle due strutture.
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Infermieri di famiglia e comunità per implementare un nuovo modello di assistenza domiciliare anche durante la pandemia per pazienti covid e non covid: ancora a rilento l’immissione nel sistema.
Il decreto Rilancio ne ha previsti 9.600 a maggio 2020, per il primo anno con contratti flessibili e dal 2021 assunti a tempo indeterminato: finora sono in servizio solo in 1.132, l’11,9% delle previsioni.
A certificarlo è la Corte dei conti nel suo Rapporto 2021 sul coordinamento della finanza pubblica, dove tra si dice chiaramente che “limitato è il grado di attuazione di misure, quali l’utilizzo degli infermieri di comunità” e “incerti anche i risultati sul fronte del potenziamento dell’assistenza domiciliare o del recupero dell’attività ordinaria sacrificata nei mesi dell’emergenza, che rappresenta forse il maggior onere che la pandemia ci obbliga ora ad affrontare”.
La Corte dei conti parla chiaro: 747mila ricoveri in meno e 145 milioni di prestazioni ambulatoriali per i pazienti non Covid saltati per la pandemia e non ancora recuperati, visto che delle risorse stanziate per farlo è stato utilizzato solo il 62% (in alcune Regioni anche meno del 20%).
E dei 32mila infermieri impegnati nell’emergenza (soprattutto in ospedale), la maggior parte sono a tempo determinato: il 27,4% hanno avuto un contratto stabile.
“L’assistenza sul territorio, ma a che quella in ospedale – afferma Barbara Mangiacavalli, presidente della Federazione nazionale degli ordini delle professioni infermieristiche – non si può limitare all’emergenza difronte ai milioni di prestazioni ‘saltate’ e che per ora non si accenna a recuperare. Per questo non si può pensare di utilizzare personale assunto in modo precario: è necessario riorganizzare i servizi e integrare gli organici. La carenza di infermieri supera le 60mila unità e il peso si questa situazione si fa sentire in modo sempre più serio sull’assistenza”.
“Senza infermieri non c’è salute, ma soprattutto non c’è assistenza h24 – aggiunge Mangiacavalli –. Ora, grazie anche al Recovery Plan che stanzia risorse importanti proprio per implementare le cure di prossimità, il Governo metta in campo tutte le misure per potenziare gli organici infermieristici e per stabilizzarne l’inquadramento contrattuale: oggi la media degli infermieri per mille abitanti è di circa 5,7, mentre nei paesi dell’OCSE supera l’8,5”.
“Gli studi nazionali e internazionali parlano chiaro: pochi infermieri riducono anche il livello di assistenza erogato dai servizi. La correlazione del numero di assistiti in carico a ogni infermiere (nel servizio pubblico) lega, a ogni paziente in più, rispetto a uno standard medio di 6 per professionista, un rischio aumentato di mortalità del 5-7% (ma in alcuni servizi, come le Terapie Intensive o l’assistenza pediatrica, il rapporto diminuisce a 4 e anche a 2 pazienti per infermiere). Non si può non garantire l’assistenza con personale stabile, motivato e formato secondo le linee specialistiche di cui anche durante i momenti più gravi dell’emergenza è emersa la necessità”.